Un conto alla rovescia proiettato sul fondale, il pubblico ha 15 secondi per votare. Nove danzatori allineati attendono di sapere quale canzone sarà la più votata. Ogni spettatore ha una lista di 100 canzoni e, grazie a un’applicazione scaricata appena prima della performance, può scegliere la sua preferita. Ogni canzone attiva differenti coreografie: soli, duetti, trii, quartetti... Gli interpreti conoscono 100 coreografie differenti scritte precisamente per 100 canzoni del repertorio pop-rock, tuttavia ogni sera ignorano cosa il pubblico sceglierà. La sequenza degli avvenimenti è decisa dal caso. I danzatori attendono il loro turno, diventando così un jukebox vivente. La difficoltà di questo gioco mette gli interpreti in una condizione di fragilità e di completa esposizione emotiva. Canzone dopo canzone impariamo a conoscere i loro caratteri, le loro personalità, il loro modo di reagire e relazionarsi agli altri.
Jukebox è la scoperta di nove persone che passo dopo passo si mostrano per quello che sono.
«La composizione coreografica di Serena Malacco è cifra di una forte uniformità di stile nella varietà delle atmosfere, a sottolineare il fatto che la purezza, nella danza contemporanea, non si ottiene soltanto per astrazione. La composizione riflette il mondo, portando in scena il gesto naturale e inconsapevole che gioca con la musica leggera. Si delinea così una visione della danza, capace di catturare la possibilità della poesia nei movimenti che abbiamo davanti agli occhi tutti i giorni, in ogni momento. Non si tratta banalmente di portare il mondo in scena o la scena nel mondo, ma, più profondamente, di riprendere un istante e avere il coraggio di esservi fedele in modo incondizionato. Proprio l’incondizionato è richiesto agli interpreti di Jukebox nella forma dell’attesa e della disponibilità assoluta. La scommessa è stare in scena settanta minuti, senza avere idea di cosa stia per accadere. È come un’interrogazione alla rovescia – è vietato ripassare e si spera che arrivi presto il proprio turno. Gli interpreti devono immergersi in quella che l’antropologia chiama esperienza del flusso: la coscienza si fonde con l’azione (non ci si può guardare da fuori), si ricerca la perdita dell’io (non vi è pensiero riflessivo), la concentrazione è limitata a un certo numero di regole (come accade in ogni gioco), il disegno è univoco e implacabile (assicurando a chi lo pratica un godimento fragile ma pieno). Questione di legge e di grazia, gioco crudele, suprema apologia del caso».
Caterina Piccione