Premiato con il Grand Prix de littérature dramatique, Au Bord dell’acclamata drammaturga francese Claudine Galea è stato tradotto e rappresentato in molti paesi europei (fino alla recentissima versione firmata da Stanislas Norday per il Théatre National de Strasbourg) e rappresenta una novità assoluta per l’Italia. Galea si concentra su una foto: una donna porta un’uniforme e tiene stretto un uomo al guinzaglio. Scattata nella prigione di Abu Ghraib e apparsa sul Washington Post il 21 maggio del 2004, l’immagine, terribile documento, porta con sé l’impronunciabilità, l’inafferrabilità, l’orrore dell’atto di violenza. La sua irrappresentabilità. Ma è sulla donna che si concentra l’attenzione dell’autrice. A partire dall’inconfessabile attrazione per questa figura femminile, per la sua oscenità, si incatenano nella testa e nel corpo di chi parla diverse figure femminili. Un libero quanto pericoloso scivolare dalla figura della soldatessa, a quella dell’amante da cui la stessa Galea è stata abbandonata fino alla madre, figura torturatrice. Al di là del suo statuto, la foto diventa un palinsesto dell’inesprimibile, un oggetto drammaturgico evirato dal suo senso strettamente documentale e politico. Un atto di sovversione, forse, che nutre la primaria e sconvolgente esperienza che il testo propone.
È arduo raccontare il fenomeno, del tutto teatrale, che Au Bord rappresenta. Au Bord chiede di andare sulla scena, di essere portato in pubblico. È una lotta potente fra parole e silenzi, tra le parole e il piacere, tra le parole e le immagini. È una lingua fatta di grida e di rumori, capace di dire l’enormità del desiderio e del dolore, di parlare dell’intimità dell’essere, di andare lì dove fa più male, di avvicinare l’indicibile. È un magnifico cerimoniale della passione e un sacrilegio di fronte alle idee e all’estetica condivise dove il senso primo dell’immagine (di quella immagine) si smorza nella generazione osmotica e continua di nuove immagini. Una continua sovrapposizione, una continua rilettura che ci tiene al guinzaglio.
Come portare in scena questo “attraversamento”, questo soffermarsi su un’immagine fotografica - così inumana da respingerci e allontanarci - fino a bucarla, depistarla, farla parlare di noi?
Questo il nodo, il laccio, il livello di lettura sul quale scegliamo di concentrarci: una selva di immagini che partoriscono altre immagini, una rete nella quale siamo intrappolati e da cui nasce la nostra inquietudine, il nostro spaesamento. Un interrogativo sulla natura dell’immagine e sul rapporto d’interdipendenza fra queste, la psiche e il pensiero.
«Non penso che il mio lavoro si basi sulla fantasia, io lavoro sul reale – afferma Galea - dipende da chi ascolta o chi guarda la libertà di fantasticare. Quello che disturba è che sono io a generare quelle fantasie. Chi legge o chi ascolta non può più flirtare con la fantasia, non può più solo carezzare l’idea, restare al sicuro dentro una comoda distanza. Io spezzo la distanza, tolgo il velo, dono un corpo a quello che ci si immagina, mostro, descrivo e questo ci lascia a nudi, tutti, io e voi. Le persone amano essere dei voyer ma non essere visti. Ma per vedere bisogna accettare di essere visti».
Il nostro Au Bord non riguarda l’intimità e la soggettività, riguarda la collettività. È un rituale collettivo che si nutre del rapporto tra una donna e l’immagine. Tra una donna e un’altra donna. Immaginiamo uno spazio che partorisce immagini. Il suono partorisce immagini. La voce partorisce immagini. Il corpo partorisce immagini. «Quello che mi piace dell’immagine – ancora Galea - è che apre lo sguardo, lo approfondisce. Non parlo mai d’interpretare l’immagine, parlo del fatto che l’immagine si rivela lentamente se lo sguardo ha la possibilità di soffermarsi. Forse abbiamo bisogno di sospendere il flusso che ci trasporta senza che noi si abbia il tempo di vedere, comprendere, o anche desiderare».
Residenza creativa nell’ambito del Premio Toscana Terra Accogliente 2022.